(dal numero di aprile 2025 di Liberetà Toscana)
Il 25 aprile rimane una data cruciale per la nostra democrazia. In modo particolare per la sinistra, che deve battersi partendo dai diritti del lavoro e dalla pace. Contro la deriva che sta minando la nostra democrazia. Intervista al presidente dell’Istituto storico della Resistenza, Vannino Chiti
Con l’avvicinarsi del 25 aprile, proviamo a conversare del significato di questa ricorrenza e di un’altra ricorrenza che cadde esattamente nell’aprile di tre anni dopo, ma anche sull’oggi. Lo facciamo con una delle teste lucide della sinistra: Vannino Chiti, che ha vissuto l’intero percorso che ha portato dal Pci al Pd, passando per il Pds e i Ds. Oggi è presidente dell’Istituto storico toscano della Resistenza, dopo essere stato presidente della Regione Toscana, ministro per le Riforme istituzionali e i rapporti con il Parlamento del governo Prodi, senatore Pd e vicepresidente del Senato.
Chiti, si domanda mai, celebrando il 25 aprile, perché dopo soli tre anni dalla vittoria sui nazifascisti del 1945, il 18 aprile 1948 la sinistra perse le elezioni?
«Già, ma allora vinse la Democrazia cristiana, un partito complesso al cui interno c’erano componenti di destra ma anche progressiste, comunque unite da un forte sentimento antifascista. Il governo De Gasperi comprendeva anche i repubblicani di La Malfa, i liberali, il Partito socialista dei lavoratori italiani di Saragat, l’Unione dei socialisti di Lombardo, una coalizione con netta preclusione verso il Movimento sociale, erede del fascismo. Ben altro dalla destra che ci ritroviamo oggi».
La destra di adesso è peggio, benone, ma la sinistra perché perse?
«È stato un errore considerare che il 25 aprile fu interamente il frutto della sinistra. Nelle brigate partigiane, perlomeno non in tutte, e soprattutto dopo l’8 settembre, non c’era solo il Pci, ma anche Giustizia e Libertà, le donne poi dimenticate, spezzoni di monarchici e cattolici, preti, ceti popolari e borghesi. Dopo la fine della guerra, le cose erano cambiate: la guerra fredda e la divisione in blocchi avevano spento l’unità antifascista e antinazista, mentre le forze progressiste semplificarono la distinzione tra antifascisti e collaborazionisti, senza indagare le ragioni della zona grigia degli indifferenti. Un’area che esiste anche oggi e che non scende in campo rispetto a schieramenti che certo non faranno la marcia su Roma, ma per i quali il confine tra democrazie e democrature è labile: basta togliere indipendenza alla magistratura, colpire libertà e pluralismo dell’informazione, affievolire la partecipazione, indebolire l’opposizione.
I grandi capitalisti sembrano voler fare a meno della democrazia. È così?
«Siamo a una sfida aperta al capitalismo democratico, che arriva non più da parte della finanza che soppianta l’economia produttiva, ma da parte di un capitalismo delle innovazioni tecnologiche che servono più a rafforzare potere e ricchezza tra i privilegiati che
a migliorare la vita di tutti. Un cambiamento d’epoca in cui non conta il colore delle ideologie ma l’opzione per le democrazie autoritarie. Oggi è fondamentale battersi perché la democrazia europea non diventi un vaso di coccio tra Usa, Russia e Cina e abbia una politica estera di sicurezza e di difesa comuni che non comporti aumenti delle spese militari, visto che – come ricorda Prodi – i 27 paesi dell’Unione spendono nel complesso 500 miliardi, secondi solo agli Usa, e prima di Cina e Russia. L’altro grande tema deve essere il contrasto alle disuguaglianze».
Si è consumato un distacco sentimentale tra forze progressiste e persone?
«Una politica seria, di fronte a problemi tanto complessi – con l’affermazione delle forze reazionarie in Italia e in Europa e un modello di democrazia autoritaria avanza – deve rispondere ai bisogni delle persone. Le forze progressiste non lo fanno, quando le pensioni minime sono sotto l’asticella di povertà, come un quarto degli stipendi dei lavoratori a tempo indeterminato, per non parlare dei giovani, dei precari, dei disoccupati con un titolo di studio ma costretti a emigrare all’estero: quindicimila dalla Toscana solo nel 2024».
Uno dei punti di forza della destra sta nell’incapacità delle forze progressiste di individuare soluzioni per l’immigrazione.
«La sinistra dovrebbe pensare a organizzare l’inserimento nei posti di lavoro, lasciati vuoti dal gelo demografico, tramite l’apprendimento di lingua, mestieri, rapporto con l’offerta di lavoro, in linea con la nostra Costituzione. Cosicché la destra, che considera i migranti solo numeri con l’unico obiettivo del respingimento, fino alla vergogna dell’assenza di una legge sulla cittadinanza, può farsi forte in un momento di grandi disuguaglianze, scatenando guerre tra poveri».
Già ma come si fa a rispondere ai bisogni delle persone se non si è al governo?
«Con campagne non occasionali ma continuative, forti, ostinate: se anche non si vincesse, si sarebbero gettate le basi per le elezioni successive. Da quelle per il salario minimo garantito di nove euro l’ora che non costringerebbe i lavoratori, migranti ma anche italiani, a lavorare per due euro fino a diritti sindacali per tutti, istruzione, servizio sanitario universale pubblico, un lavoro che abbia un senso per i giovani per scongiurare la guerra tra generazioni, pensioni minime adeguate. Se le forze politiche e sindacali non sono presenti su questi temi è difficile fare entrare nei cuori la differenza tra destra e sinistra. Il distacco sentimentale dipende da carenza di valori, incoerenza programmatica, incapacità di raggiungere gli obiettivi che la gente sente propri».
Non solo i bisogni ma anche una visione del mondo e del futuro.
«Esatto. Altrimenti la politica diventa solo tecnica e mestiere invece di passione, vicinanza alle persone che vanno fatte partecipare per cambiare la società. L’Europa sarà subalterna se non riesce a coniugare difesa dei diritti dei popoli e costruzione di una pace giusta senza cui non ci sarà speranza di futuro. La pace va insieme alla giustizia sociale ed ecologica e a un’idea di futuro di cui oggi le forze progressiste sono incapaci anche perché divise. Vedi infine l’Ucraina. Va cercata caparbiamente un’altra strada, tra i convinti di dare armi all’Ucraina per difendersi dall’invasione russa ma senza un’idea di come ricostruire la pace, e i contrari senza dire come si tutela un popolo dall’invasione. Ne è nato un dramma».