Il salvataggio del Pignone

(dal numero di Liberetà Toscana di aprile 2024)

A settant’anni dalla «madre di tutte le vertenze», ricordiamo la figura di Giorgio La Pira, artefice della trattativa che cambiò la nostra industria. Interviste a Patrizia Giunti, presidente della Fondazione Giorgio La Pira e Daniele Calosi segretario generale della Fiom Cgil di Firenze, Prato e Pistoia

 

Professoressa Giunti, parliamo allora del settantesimo del salvataggio del Pignone, di quella che viene comunemente chiamata la «madre di tutte le vertenze». Il modello virtuoso di operazioni di salvataggio industriale. Patrizia Giunti è presidente della Fondazione Giorgio La Pira, la raggiungiamo nel pieno di una seduta d’esame.

L’azione di Giorgio La Pira nasce dalla profonda convinzione di dover difendere i deboli. È così?
«La domanda che si pone fin da quando è giovane, a trent’anni e poco più, è come combattere la povertà. Per lui il problema è sempre offrire una risposta al bisogno che il povero rappresenta. Poi è una risposta che cresce. Inizialmente è soltanto assistenziale, poi a mano a mano si corrobora nell’idea del lavoro, dell’occupazione. Quella di La Pira è
una sorta di crescita teorica e pratica, nei diversi ruoli amministrativi che ricopre, da sindaco o viceministro. Studia gli economisti britannici e americani, la teoria rooseveltiana della massima occupazione. Anche con i compagni di cordata: era buon amico di Fanfani. Entra in rotta di collisione con i vertici di Confindustria, si confronta con don Sturzo, con Angelo Costa e con gli amici più vicini. Quando l’esito appare ineluttabile lui non ci sta».

Fino all’idea di coinvolgere e convincere
Enrico Mattei.
«Attorno al salvataggio del Pignone si è creata una vera e propria epica, una sorta di mitologia del racconto. La Pira è sicuramente in contatto con Mattei. Nella vertenza, La Pira mette in campo quelle che sono le sue cifre, la sua spiritualità per un verso e l’urgenza
di una risposta al bisogno di tutela dei quasi duemila lavoratori».

Che posto occupa nella vita straordinaria
di Giorgio La Pira questa vicenda?
«È un’esperienza fondamentale, perché all’interno della prima amministrazione
il salvataggio rappresenta, non solo nell’esperienza di La Pira, ma anche nella politica economica del paese, il segno distintivo di un paese che tenta di conquistare un suo posto in ambito internazionale. Un’Italia che guarda al Mediterraneo e tenta di realizzare una propria politica in campo energetico».

Nacque così l’idea di produrre turbine.

«L’Italia era un paese nel quale si stava affermando l’industria automobilistica che presupponeva la necessità di un rafforzamento dell’approvvigionamento energetico. Ma è anche il segnale forte di una politica economica che vede il coinvolgimento fattivo delle maestranze operaie. Anche questo è un altro degli aspetti del salvataggio del Pignone. Il piano di riconversione di una fabbrica che la Snia Viscosa aveva deciso di destinare a produrre telai, non riscontrava il consenso degli operai: non avevano esperienza in quel campo, erano privi del necessario know how. Il vecchio Pignone era un’industria metallurgica che aveva lavorato moltissimo con le commesse belliche. Sono gli stessi operai che prospettano a La Pira un piano alternativo per la fabbricazione di turbine, di sonde finalizzate alle attività di estrazione petrolifera su cui Eni si stava cimentando. Anche da questo punto di vista la vicenda del salvataggio appare esemplare come poche altre».

Alla fine, è esemplare anche nell’esperienza di Giorgio La Pira sindaco.
«Quest’esperienza gli consente di realizzare l’obiettivo duplice di salvare da un lato dalla miseria duemila famiglie, dall’altro di mettere in evidenza come la lotta alla povertà si realizza soprattutto attraverso il momento virtuoso del lavoro che rappresenta una vittoria per l’intera comunità. La Pira guarda all’articolo 4 della Costituzione che lui stesso aveva contribuito a scrivere quando era all’Assemblea costituente. Il comma 2 di quell’articolo dice che ciascuno di noi ha il dovere di contribuire con la propria attività alla crescita culturale, sociale, economica della comunità. Significa che la salvezza dalla povertà non si realizza con una modalità semplicemente assistenziale ma con la difesa anche della competenza professionale dei lavoratori. Lo stesso principio che farà del Nuovo Pignone un’azienda leader all’interno di Eni. Lo ricorderà lo stesso Mattei nel 1957. Con un intervento davanti agli operai dirà come lui stesso fosse sorpreso del risultato ottenuto, assistendo alla realizzazione delle prime sonde. Erano passati appena tre anni.
La firma dell’accordo fu del gennaio 1954. Tre anni dopo il Nuovo Pignone
Giorgio La Pira. Con il salvataggio, il Pignone divenne Nuovo Pignone, poi General Electric e oggi Baker Hughes, una multinazionale che a Firenze occupa 4.700 addetti era già un’eccellenza del panorama nazionale, una punta di diamante della capacità produttiva italiana in contesti internazionali».

Un’operazione del genere oggi sarebbe
possibile?
«Oggi avremmo bisogno della caratura di un personaggio come La Pira che per difendere il percorso maturato e condiviso con gli operai non esitò a pagare di persona. Non ci fu mai un momento nella sua vita in cui la stampa non lo mise in croce, che non irrise a ogni suo passaggio. Si inimicò la stampa e i centri di potere della comunicazione legati a Confindustria. Ma tutto questo non lo indusse a cambiare passo, a scegliere soluzioni più morbide, ad abbandonare quel progetto per il quale si era speso. Così come non esitò a entrare in rotta di collisione con i vertici della Democrazia cristiana, dove erano presenti anche altre posizioni sulle scelte di politica economica».

Fu questa coerenza a portarlo a vincere
la sfida del salvataggio del Pignone?
«La coerenza e la capacità di accantonare i propri interessi per l’interesse collettivo,
per il bene comune. Per quella vertenza si spese senza tentennamenti, non
ascoltando le esortazioni degli amici che gli consigliavano “fermati, stai rischiando
troppo, ti stai mettendo contro tutti”. Di questa coerenza e di questo rigore avremmo bisogno oggi. Come avremmo bisogno di una pienezza dell’impegno politico a prescindere dal risultato».

 

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«Mio padre fu uno dei primi comunisti a essere riassunto, come operaio nel 1961. Vengo dalla famiglia di un lavoratore del Pignone dove poi sono entrato anch’io, all’ufficio tecnico, nel 1991, come impiegato. Sono legatissimo a quella fabbrica». Daniele Calosi è il segretario della Fiom Cgil di Firenze, Prato e Pistoia, delegato sindacale dal 1993, anno della privatizzazione del Vecchio Pignone. «Oltre a Giorgio La Pira, c’è da tenere conto – fa notare – del ruolo non meno importante di Mario Fabiani, già sindaco di Firenze dopo la
guerra (dal 1946 al 1951), all’epoca presidente della provincia di Firenze. E degli operai naturalmente».

Un democristiano, La Pira, e un comunista, Fabiani. La loro arma vincente?

«Riuscire ad avere un rapporto vero con i lavoratori. I loro problemi erano quelli della città».

Politica e lavoratori insieme: un’accoppiata vincente. «Il ruolo della politica fu rilevante, ma quello degli operai lo fu di più. Erano gli anni dei licenziamenti politici. Quando la Snia Viscosa decise di chiudere la Pignone e di inviare le lettere di licenziamento,
licenzia per primo il capo degli operai comunisti, Franco Fantini, mandato a casa senza liquidazione. La sera prima aveva tenuto una riunione degli operai comunisti alla casa del popolo del Ponte di Mezzo, attaccando pesantemente la direzione aziendale per la decisione di procedere alla chiusura del Pignone. Fantini fu un leader prestigioso, molto amato dai lavoratori. Ci furono proteste e scioperi, ma la direzione fu inflessibile».

Nonostante la volontà dei lavoratori di salvare a ogni costo la fabbrica?
«La Pira decise di scrivere a Mattei dopo novanta giorni di produzione mandata avanti in autogestione dai lavoratori, a dimostrare che erano in grado di lavorare a prescindere dalle scelte aziendali. Questo consentì a La Pira di convincere Mattei a rilevare il Pignone
e salvaguardarne il futuro».

Ma ci fu chi ne pagò il prezzo.

«Il prezzo più alto fu pagato proprio dalla Fiom, dai lavoratori comunisti e socialisti, che furono quelli che nel nuovo accordo l’Eni non riassunse. Non a caso al primo rinnovo della Rsu e al successivo rinnovo del consiglio di fabbrica, la Fiom Cgil non riuscì a presentare
una propria lista. È una testimonianza che spesso viene dimenticata nella narrazione del salvataggio del Pignone».

Quando cambiarono le cose?

«Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta vengono riassunti gli operai comunisti e socialisti e questo consente alla Fiom di tornare a essere quello che era, facendo del Pignone quello che è ora. Se oggi è diventata una grande multinazionale, anche se non si chiama più Nuovo Pignone ma Baker Hughes, lo si deve a quella lotta».

Cosa insegna questo salvataggio?

«Che fu fondamentale il ruolo dei lavoratori, insieme a quelli del sindaco e del presidente della provincia. All’epoca non c’erano i selfie, la politica stava a fianco dei lavoratori sostenendo le loro battaglie. Se non ci fosse stato questo oggi non saremmo qui a raccontare questa storia, dentro la città per la città. La storia di Firenze non può essere disgiunta da quella del movimento operaio, al Pignone come alla Galileo. Non a caso un’azienda tra le più sindacalizzate».

Oggi sarebbe più difficile salvare la Pignone. La vicenda della Gkn lo dimostra.
«Non certo per la carenza di determinazione dei lavoratori, quanto piuttosto per l’assenza di una politica attenta al mondo del lavoro. Il sindacato continua a fare il suo mestiere, non posso dire lo stesso della politica».

 

 

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