(dal numero di febbraio 2024 di LiberEtà Toscana)
Stanno meglio le pazienti delle professioniste del settore. Lo sguardo è di Monica Bettoni, 73 anni, gran parte dei quali dedicati proprio alla sanità. Laurea, specializzazioni in anestesia, rianimazione, cardiologia, igiene e medicina preventiva, primo ingresso al pronto soccorso dell’ospedale di Arezzo nel 1977. Poi senatrice, quindi sottosegretaria alla Sanità con i governi di Prodi e D’Alema. Infine direttrice dell’Istituto superiore di sanità dal 2007 al 2013. «In questi anni, e penso alla Toscana e non all’intero paese, alcuni servizi dedicati alle donne sono stati organizzati e danno risposte necessarie, sia in ospedale che sul territorio. Fertilità, maternità, procreazione medica assistita sono servizi diffusi e funzionanti. Ovviamente rappresentano solo un pezzo della vita delle donne che per il resto subiscono gli stessi problemi degli uomini che hanno a che fare con la sanità: liste di attesa, carenza di riferimenti, rafforzamento dell’opzione privata rispetto a quella pubblica». Il pronto soccorso rimane un elemento di criticità. «C’è carenza di professionisti
di questo settore e un modello organizzativo della sanità che rende frequenti gli accessi impropri. Ma il rapporto del cittadino con questa struttura potrebbe essere migliorato, anche facilitando il dialogo tra operatori, pazienti e familiari. Questi ultimi passano ore senza informazioni, con un’ansia crescente per le condizioni del familiare che è oltre la porta. Perché non creare una figura professionale “ponte” per informare la famiglia?».
Svantaggio professionale. Sul fronte professionale i problemi delle donne sono maggiori di quelli degli uomini. Monica Bettoni ricorda i suoi esordi al pronto soccorso del San Donato: «Era il 1977 e io ero la prima dottoressa impiegata in quel servizio e una domanda che mi rivolgevano spesso i pazienti era: dov’è il dottore? Cosa che mi faceva arrabbiare moltissimo. Adesso il nostro settore vede una presenza altissima di donne. Potrei dire che le donne studiano di più e vincono più concorsi. Ma molti problemi sono rimasti. Una dottoressa è costretta a fare i conti con i problemi di ogni donna: figli, casa, anziani da gestire. Solo che lo fa con turni di lavoro che non distinguono i sabati e le domeniche,
la notte e il giorno, il Natale e la Pasqua. E non è facile. Non penso all’accesso alla professione ma alla carriera – continua –: la tentazione a rinunciare per tenere tutto in equilibrio è forte. Alla possibile rinuncia si somma un atteggiamento non dichiarato ma spesso praticato e cioè che a parità di professionalità, è meglio far avanzare un uomo piuttosto che una donna».
Poche motivazioni. Davanti agli occhi di una professionista che ha unito lavoro, famiglia e politica, c’è anche un calo delle motivazioni. «La mia generazione ha iniziato a lavorare sulla scia della riforma sanitaria, quando valori e ideali da applicare alla professione erano molto sentiti. Sentivamo una forte spinta nel lavoro, nello sforzo quotidiano di applicare la riforma. Oggi queste motivazioni mi appaiono fortemente indebolite». Lo afferma una pensionata che durante l’emergenza Covid si è resa disponibile a lavorare negli ospedali del Nord Italia da volontaria. Una scelta che le ha fruttato il titolo di cavaliere della Repubblica consegnato dal presidente Mattarella. «L’ho sentita come un dovere etico ma sono consapevole che gli anni Settanta e Ottanta sono lontani. Non mancano solo i soldi e i professionisti. Probabilmente manca anche una visione ideale e politica sul valore della salute e di tutti i diritti essenziali».