Per ricostruire dobbiamo rifarci da capo o sulle macerie di un mondo che fu?
Marco Tognetti
Il lockdown è iniziato 47 giorni fa. Pochi, se visti nella prospettiva di anni e se la consideriamo una misura per salvarci la vita. Come mai quindi tutta questa insofferenza, non certo solo degli ultimi giorni? Per rispondere potremmo dire che è il risultato della comprensibile consapevolezza che l’impatto di questi, tutto sommato, pochi giorni avrà nel medio termine. Ok, vero, la cronaca di queste ore parla da sola. Potremmo considerare inoltre la fatica nel gestire l’incertezza con cui tutti guardano ai restanti 8 mesi del 2020 per quanto riguarda le politiche, l’impatto economico e l’organizzazione familiare, senza contare il famoso potenziale rimbalzo dell’autunno che potrebbe vanificare la ripartenza. Giusto. Ma forse c’è anche qualcos’altro. Per ripartire e ricostruire bisogna avere una strada da riprendere, o un progetto da realizzare. Se infatti guardare solo al futuro può essere difficile, sarebbe normale per lo meno aver voglia di riprendere “da dove abbiamo lasciato”, e da lì ricominciare. Credo invece che il nostro problema sia proprio su entrambi i fronti, passato e futuro: quel che c’era prima lo abitavamo per inerzia, nel profondo sfido a trovare chi lo ritenesse “un’ottima base per lo sviluppo dei prossimi 20 anni”, mentre quel che potremmo fare ora non riusciamo a stabilirlo in modo convinto e ordinato, prendendocene le relative responsabilità prima di tutto personali. A guardarci da fuori sembriamo semplicemente dire “non doveva succedere, liberateci!”.
Lo so che non è usuale, ma per non cedere alla tentazione di criticare e basta mi sembra corretto invece elogiare e prendere ad esempio positivo l’unico documento pubblico di carattere strategico che ho ad oggi intercettato: “Milano 2020 – Strategia di adattamento”, realizzato dalla Giunta di Milano. L’unico dove ho trovato l’incontro tra adattamento, visione costruttiva e una buona dose di pensiero creativo, che prova almeno a spingersi dal “ciò che va fatto” verso il “ciò che potremmo fare con piacere”, che mira a trasformare una serie di oggettivi problemi in nuove opportunità. Non credo sia un caso che quel documento non sia il prodotto di una task force nè la relazione di un tecnico. L’umorista e scrittore Bloch diceva: “se hai un martello tutto ti sembra un chiodo”. Ogni tecnico vede la sua parte: l’avvocato le leggi, il commercialista il bilancio, il medico il termometro. Urge la politica, come prova a fare Milano, i temi forti li abbiamo già elencati nel precedente articolo. Non dobbiamo quindi né ri-partire né ri-costruire. Dobbiamo invece partire e costruire, dovevamo essere già in viaggio ma non importa, credo sia ancora vero che chi parte ora staccherà gli altri.
Sergio Cofferati
In questi giorni il dibattito politico è dominato dal tema della “ri-partenza, la cosiddetta fase 2. Discussione che rischia costantemente di degenerare in rissa e di anticipare nuove tragedie. Cosa crea questo modo di discutere? La prima cosa è il liquefarsi degli assetti istituzionali e delle loro regole. Il Governo dopo lunghi e sofferti confronti decide e le regioni (non solo quelle governate dall’opposizione) cambiano i contenuti delle scelte del Governo. Questo procedere genera anche danni, vedremo cosa produrrà su temi delicati come quelli della sanità ( spero poco ma temo molto), quel che è già certo è la grande incertezza che trasmettono ai cittadini riducendo la credibilità delle istituzioni. La riduzione è tanto più forte quanto le decisioni sono (o sembrano) dettate dettate da scelte politiche di parte non da esigenze oggettive. La seconda cosa è la demagogia e l’approssimazione nel parlare di ripartenza, termine per altro ambiguo e impreciso. Illudersi di poter tornare a prima del contagio senza sostanziali cambiamenti nell’economia è pericolosissimo. Basterebbe riflettere sugli inevitabili effetti di alcune delle ipotesi che vengono messe in campo. Nella città di Milano, la “capitale industriale” del paese, ogni giorno un milione e trecentomila persone si muovono con la metropolitana. Nell’ipotesi di ripartenza si prevede che il metro’, nel rispetto delle sacrosante e indispensabili regole di sicurezza trasporterà al giorno 350mila persone. Questa decisione è uno dei pilastri della fase nuova. Spaventa il fatto che i proponenti del nuovo non spendano una parola per spiegare come si muoveranno i restanti 950mila. Se il sistema economico di prima faceva leva su quell’organizzazione e su quelle dimensioni della struttura dei trasporti è evidente che il sistema futuro della mobilita’ avrà caratteristiche completamente diverse. Quali? Nessuno ne parla. Allo stesso modo non si discute di quale organizzazione va preparata. Vanno benissimo i controlli sanitari all’ingresso dei luoghi di lavoro, ma poi? Gli spogliatoi e le mense di prima non garantiscono (salvo rare eccezioni) la sicurezza necessaria. Saranno modificate? La ripartenza incombe e non avendo fatto questi cambiamenti prima farli in corso d’opera sarà pericoloso per la sicurezza. Gli impianti, le macchine, le catene di montaggio sono disposti nel rispetto della sicurezza? Non esiste, ovviamente, solo il problema di come produrre ma anche il “cosa” vale tantissimo. Alcune attività sono già destinate a ridursi, penso ad alcuni servizi in particolare, altre saranno costrette a concentrarsi per calo della domanda. Ciò avverrà a discapito del lavoro e dei salari. Molte altre sono le cose di cui non si parla, ma l’elenco è troppo lungo. Nulla si dice soprattutto della procedura più semplice per affrontare il cambiamento che ci aspetta con un poco di forza in più. Quell’ovvio cercare un’intesa tra le grandi forze sociali (lavoro e impresa) e il Governo. Linee generali, criteri, principi e modalità. Per verificarne poi l’attuazione a livello locale, riconoscendo così le specificità senza creare fratture e divisioni.