(dal numero di settembre 2025 di Liberetà Toscana)
Dieci anni prima della legge che superò i cosiddetti manicomi, a San Salvi si sperimentò un nuovo sistema di cura in cui i malati potevano comunicare con l’esterno e vivere una vita dignitosa come tutti gli altri
Una rivoluzione nell’assistenza psichiatrica in Italia, avvenuta già nel 1968: consentire ai cittadini malati di mente di potersi ricoverare, essere curati e reinseriti nella vita sociale attraverso programmi di assistenza, evitando di finire per sempre rinchiusi in manicomio. E trasformare quest’ultimo da luogo in cui i malati di mente venivano di fatto custoditi e
sedati, a luogo di cura vero e proprio, dove ogni paziente veniva trattato in base alle sue specifiche necessità. Una visione pionieristica, che puntava a evitare la cronicizzazione, dimostrando che era possibile guarire e dimettere i pazienti. Così la Toscana anticipò la legge Basaglia, che sarebbe arrivata solo nel 1978, dieci anni dopo, portando alla chiusura dei manicomi.
Di quella esperienza, raccontata in un libro da Vilma Masini, infermiera al manicomio di San Salvi e poi coordinatrice della casa famiglia di Figline Valdarno, furono artefici il professor Arnaldo Ballerini, che era primario a San Salvi, e il dottor Paolo Laszlo, affiancati dai colleghi Mario Taddei e Gianni Padovani. Il progetto prese le mosse nel 1961 e nel 1963
Laszlo venne mandato da San Salvi al castello di Castelpulci, dove venivano di fatto reclusi i cronici di San Salvi. Laszlo chiese se fosse possibile ottenere per i pazienti posate, flebo, pannolini igienici, perché i malati non li avevano. Poi capì, o forse gli fecero capire, che avrebbe dovuto comprarli lui, pagandoli di tasca propria, e così fece. Fu il primo piccolo, grande passo di quella rivoluzione che dopo qualche anno si realizzò in pieno, insieme al professor Ballerini, con l’inaugurazione nel maggio del 1968 a San Salvi – i Tetti rossi come veniva chiamato il manicomio di Firenze – del “reparto aperto”. Una novità assoluta in Italia. «Ballerini e Laszlo concepirono un progetto rivoluzionario – racconta Vilma Masini – un reparto completamente diverso, che potesse garantire ai pazienti un trattamento
dignitoso e un ambiente più umano. La loro visione mirava a un cambiamento radicale: superare il concetto di istituzionalizzazione e restituire dignità ai pazienti. Fu realizzato qualcosa che allora sembrava impensabile. Eravamo tutti uniti: pensate che il dottor Laszlo ci faceva di continuo lezioni di psichiatria per aiutarci nel nostro lavoro». I malati finalmente difesi, protetti, curati. Ma l’aspetto forse più importante fu la stipula di convenzioni con le varie casse mutue di artigiani, commercianti, dell’Enel, della Fiat e così via grazie alle quali centinaia di cittadini poterono essere ricoverati per essere curati e
dimessi, come avviene in qualsiasi altro ospedale.
Fino a quel momento, infatti, chi aveva bisogno di cure psichiche veniva prima ricoverato nella clinica universitaria vicina ai padiglioni ospedalieri: se dopo poco tempo di degenza i pazienti non guarivano, venivano trasferiti nel manicomio accanto e diventavano cronici definitivi. «A quei tempi la società non concepiva l’idea che ci fossero malati di mente in giro – ricorda Laszlo, oggi anche psicoanalista –. Il manicomio serviva proprio a questo
scopo, tenere lontano dagli occhi della gente la malattia mentale. Il nuovo reparto aperto di San Salvi sembrava un hotel a cinque stelle. Arrivavano pazienti anche da altre parti d’Italia. Per la prima volta la cronicità, fino ad allora considerata inevitabile, non era
più una condanna senza appello. I pazienti entravano, ricevevano cure adeguate e, per lo più dopo una breve degenza, uscivano risanati». «Nel reparto aperto di San Salvi i pazienti
avevano camerette personali – racconta Vilma – piccole ma accoglienti, che permettevano loro di godere di una certa privacy e autonomia. C’era anche una sala comune, che permetteva di socializzare e creava un’atmosfera più familiare. Infine, i pazienti potevano comunicare regolarmente con i loro familiari e uscire all’aria aperta».
Dal 1968 al 1975 quei medici lavorarono senza sosta, riuscendo a guarire tanti pazienti e così dal reparto aperto di San Salvi l’esperienza pilota approdò anche nel Valdarno fiorentino, con l’apertura di laboratori protetti nei vari comuni e la casa famiglia di Figline Valdarno. Oggi è anche grazie a Lorenzo Andreaggi, 35 anni, coautore del libro, che vive la memoria di questa illuminata esperienza. È stato lui a raccogliere in un volume i ricordi di Vilma Masini, che ha 88 anni e vive a Firenze. Vilma era soprannominata la “Fatina bionda” (che è anche il titolo del suo libro) per il colore dei suoi capelli ma anche per la sua umanità verso i pazienti. «Un’esperienza bellissima – si commuove Vilma – ho voluto tanto bene a quei malati e credo loro abbiano voluto tanto bene a me, con noi si sentivano liberi, amati,
parte di una famiglia, che era anche la mia famiglia. Quell’esperienza poi, senza quei medici straordinari, andò piano piano a esaurirsi». «Dobbiamo dire grazie a quei dottori illuminati che non avevano orari di lavoro e arrivavano da Firenze anche di notte per
essere sempre vicini ai pazienti», aggiunge con la voce rotta dall’emozione Deanna Bargilli, che all’epoca era amministrativa alla Asl di Figline.