La riduzione del costo del lavoro sarà pagato con i contributi dei lavoratori. Perché il governo non ha invece aumentato le detrazioni? Forse lo scopo della misura non era quello effettivamente dichiarato dall’esecutivo
(dal numero di luglio/agosto 2023 di LiberEtà Toscana)
La chiamano riduzione del cuneo fiscale. In realtà le imposte aumentano e a ridursi sono i contributi (a carico del lavoratore) utili al calcolo della pensione futura. L’obiettivo dichiarato è «mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori». È questo il modo giusto per farlo? Vediamo con ordine come stanno le cose al di là della propaganda. Il governo con il
decreto del 1° maggio ha ridotto la contribuzione previdenziale del 6 per cento per coloro che hanno un reddito annuo tra i 28.000 e i 35.0000 euro, del 7 per cento per i redditi inferiori ai 28.000 euro. Soldi che finivano nel cassetto previdenziale individuale sul quale viene calcolata la propria pensione futura.
Aumenta l’imponibile. Questa riduzione fa aumentare l’imponibile fiscale su cui agisce l’Irpef: di conseguenza i soldi risparmiati in previdenza saranno gravati da più tasse. In altre parole, coloro che hanno usufruito della riduzione del 6 per cento, vedranno i soldi non versati per la propria pensione tassati al 37 per cento, sommando aliquota Irpef e maggiorazioni regionali e comunali. Per coloro che sono sotto la soglia dei 28.000 euro il ragionamento è lo stesso, cambia unicamente la pressione fiscale in riferimento
al proprio reddito annuo che oscillerebbe tra il 25 e il 23 per cento più addizionali.
La perdita supera il vantaggio. Di fronte all’obiezione che questo comporterà una perdita futura superiore al vantaggio immediato, il governo ha dichiarato che
i contributi mancanti saranno coperti da contribuzione figurativa. A questo fine la copertura di oltre quattro miliardi è stata trovata sottraendo queste risorse alla rivalutazione delle pensioni. Ricalcolare il differenziale mancante per ogni posizione contributiva è più facile a dirsi che a farsi: il calcolo sarà a carico delle imprese o della stessa Inps? Il rischio è grosso, se non si chiariscono le cose non sarà sufficiente stare attenti per evitare spiacevoli sorprese. Il rendimento della pensione futura è dato dal calcolo contributivo ossia dei soli contributi versati. L’Inps divide contabilmente assistenza e previdenza, il fondo previdenziale se non sta in equilibrio è continuamente sottoposto a revisioni e tagli. È la storia di questi anni, anzianità che si allunga, età anagrafica che cresce, rendimenti che diminuiscono per calcoli astrusi, rivalutazioni insufficienti o, a seconda dell’entità della pensione, mai fatte. Il sistema continua a essere a ripartizione (quelli che lavorano versano
per coloro che hanno smesso di lavorare) solo il calcolo è a capitalizzazione.
Un legittimo sospetto. Ma torniamo al nobile obiettivo del governo di «mettere più soldi in tasca ai lavoratori». Su questo tutti siamo d’accordo, ma perché non si è scelto un modo semplice per farlo come ad esempio aumentare le detrazioni fiscali? Le detrazioni avrebbero ridotto direttamente la pressione fiscale e in busta paga l’aumento sarebbe stato al netto. Perché si rinuncia a un modo pulito ed efficiente a vantaggio di uno rischioso e dispendioso? Con le detrazioni, l’unico problema sarebbe sorto con gli incapienti, cioè coloro che non hanno guadagnato abbastanza da pagare imposte. Non avrebbero potuto usufruire di nessun vantaggio dall’aumento delle detrazioni ma per loro, solo per loro, si sarebbe potuto immaginare di ricorrere alla riduzione contributiva, con la copertura figurativa a carico della fiscalità generale. Quando si rinuncia a soluzioni semplici a vantaggio di altre più complicate è legittimo sospettare che lo scopo reale, sia ben diverso da quello dichiarato.