(dal numero di settembre 2023 di LiberEtà Toscana)
«In una situazione generale di trasformazione, che avviene anche sulla spinta dei cambiamenti demografici, il sociale e la sanità inevitabilmente acquistano un peso maggiore. È normale che su questo si concentri l’attenzione della politica e del governo. Più che in passato, perché l’attuale modello sanitario non è in grado di reggere le novità. C’è bisogno di attenzione e di innovazione da parte di tutti, anche del sindacato».
A dirlo è il segretario dello Spi Cgil Toscana, Alessio Gramolati.
Quali sono i problemi, oggi?
«Il problema principale sta nel fatto che questo governo non ha una strategia, disinveste, dà meno risorse. Per una Regione come la Toscana che nella sanità pubblica ha uno dei punti d’eccellenza, il rischio è maggiore. Inoltre: negli anni Settanta, quando fu fatta la riforma sanitaria, nascevano un milione di bambini all’anno. Oggi le nascite sono più che dimezzate, appena quattrocentomila e la popolazione invecchia rapidamente. Possiamo immaginare la stessa sanità di allora? Occorre una sanità più vicina all’ utente, che prenda in carico e assista le persone prima, per evitare che la non autosufficienza arrivi troppo presto».
Nel 2023 partirà il progetto di telemedicina della Regione. Quanto la strada annunciata dalla Toscana è stata favorita dalle vostre proposte?
«Sarebbe presuntuoso immaginare che un processo al quale guardano tutti i paesi avanzati sia stato inventato da noi. Ma è vero anche che i primi che hanno indicato un percorso alternativo all’ospedalizzazione sono stati i sindacati dei pensionati. Tra le nostre proposte i progetti “A casa in buona compagnia” e “Connessi in buona compagnia”. Ora, grazie al Pnrr, ben duecentomila nostri concittadini con problemi di cronicità saranno assistiti da sistemi di cura e monitoraggio a distanza che permetteranno di intervenire in tempo, prima che la salute sia compromessa e il ricorso all’ospedale inevitabile».
Ma che sanità servirebbe?
«Dobbiamo far sentire le ragioni non dei malati, ma dei cittadini, perché la questione sociale e quella sanitaria sono di ordine generale. La sanità che immaginarono i nostri padri si reggeva su due gambe: nel territorio la prossimità e nel sistema ospedaliero la specializzazione. Durante la pandemia, non avere avuto un sistema territoriale all’altezza del modello di specializzazione ospedaliero ci ha fatto pagare un prezzo alto».
C’è anche un problema di risorse?
«Nessun processo di riforma si fa senza investimenti. Noi non siamo il partito della spesa sanitaria ma quello degli investimenti in sanità. È evidente che se si riesce a prevenire e a rendere la cronicità una patologia che determina l’infermità più tardi possibile, il risultato sarà migliore dal punto di vista dei costi. Bisogna spendere meglio, non spendere meno. Servono risorse per medici, infermieri, tecnologie. Secondo una stima della Scuola superiore Sant’Anna, che ci supporta nella progettualità, le innovazioni migliorano l’assistenza e fanno recuperare risorse per nuovi e migliori servizi per i pazienti».