Partendo dal confronto tra Sergio Cofferati e Marco Tognetti per la seconda puntata della rubrica Pianeta Terra “Il 2° dopo il primo maggio”, pubblichiamo il contributo di Simonetta Soldani*.
Simonetta Soldani
Forse, col passare degli anni, si diventa più circospetti rispetto all’idea che crisi e disastri d’ogni tipo possano aprire spiragli palingenetici, sul piano oggettivo e soggettivo.
Alla fine di ogni guerra, ma anche dopo un’alluvione o un terremoto, ci diciamo che forse una lezione positiva possiamo trarla da quel che è accaduto, sia in termini di scelte economiche e politiche che di comportamenti e impegni individuali. Siamo cambiati, ci diciamo; o magari che dobbiamo cambiare, tutti insieme, per evitare di dover fare fronte in un futuro più o meno lontano a un’altra tragedia come quella appena vissuta.
È quel che pensiamo e sentiamo dire anche oggi. Ma sarà l’età, sarà l’inveterata cautela di chi da una vita si occupa di storia (e dunque di catene, per quanto discontinue, di eventi e processi), ma sta di fatto che ogni ragionamento in chiave binaria – sarà tutto diverso, deve essere tutto diverso; torneremo ad essere come prima, ritornerà tutto alla normalità di sempre (andrà tutto bene…) – scatena in me un moto di sospetto. Per dirla in soldoni: perfino l’Italia nuova di zecca del 1861 così come quella del 25 aprile 1945 dovettero ben presto fare i conti col fatto che la linea della discontinuità – benché si trattasse di una discontinuità reale – difficilmente poteva prescindere da realtà preesistenti, incarnate in strutture e in paesaggi, in culture e tradizioni, in uomini e donne d’ogni classe ed età.
Di fatto e come sempre, le logiche binarie sono tanto rassicuranti quanto illusorie. Non sarà “tutto come prima”; ma non sarà nemmeno l’avvio del mondo nuovo a cui qualcuno di noi (io, per esempio) aspira. E c’è il rischio reale che sia peggio di prima, come può accadere se prevale la logica della restaurazione dell’esistente, che per conservarsi deve via via accentuare i propri tratti identitari.
Penso che sarebbe già molto se si riuscisse anche soltanto a cominciare a tradurre in atto la consapevolezza – senza dubbio cresciuta in questi tempi calamitosi – che la somma degli interessi individuali non fa l’interesse di una comunità, ma tende a distruggerla. Perché questo vorrebbe dire lavorare a ricostruire un NOI vario e pulsante di vita, di futuro: vorrebbe dire piegare almeno un po’ la curva dei bilanci pubblici in direzione di investimenti in sanità , in istruzione e ricerca, in infrastrutture utili (e non prima di tutto speculative); vorrebbe dire sostenere in tutti i campi forme collaborative ed equilibrate di competizione, funzionali alla ricomposizione di società sfilacciate e sospettose.
Ma dobbiamo sapere che non si tratta di logiche operanti solo sul piano economico; e anche da questo punto di vista non sono affatto certa che questa lunga pandemia favorisca quel bisogno di socialità e di comunità che è indispensabile per mettere in moto processi come quelli a cui accennavo sopra, ridotti come siamo a chiuderci in nuclei familiari sempre più ristretti, a scansare per strada qualunque “ingombro umano” ci si pari davanti, a guardare con sospetto chiunque si muova festoso verso un suo consimile, a sentirsi tranquilli solo davanti ai volti e alle voci virtuali che fuoriescono da un cellulare, da un tablet, da un computer… Posso dire, come donna, che anche gli inni levati allo smart work inteso come lavoro a casa, in modo da “armonizzare” lavoro di cura e lavoro pagato mi suscita non pochi timori? D’altronde, non vanno certo in direzione di un cambiamento di rotta gli inviti sempre più pressanti e diffusi a concentrarsi su una ripartenza senza macchia e senza paura. È bastato un allentamento della presa del virus per scatenare un desiderio di “libera tutti” che è tanto più difficile contenere in quanto corrisponde a un bisogno profondo e radicato – non solo economico – di riprendere i ritmi usati, di muoversi lungo sentieri noti, di assecondare una quotidianità individuale e collettiva che nella memoria tende ad assumere colori ben più rosei di quanto ci saremmo immaginati.
E dunque? Dunque, penso non si debba aver paura di dire che per spostare anche di poco le logiche perverse che ci governano ci sarà bisogno di tutto l’impegno – di mente e di cuore, giorno dopo giorno – non solo di chi le combatte da tempo, ma di energie nuove: quelle maturate attraverso mille rivoli di iniziative di solidarietà al tempo del coronavirus, che vanno intercettate, organizzate, valorizzate.
(*Simonetta Soldani: Ha insegnato Storia del Risorgimento e Storia contemporanea nelle università di Siena e di Firenze. Fa parte della direzione della rivista “Passato e presente” fino dal suo inizio nel 1982. È tra le fondatrici della Sissco e della Sis. Si occupa soprattutto di storia della costruzione dello Stato nazionale italiano, di storia della scuola e di storia delle donne.)