La Firenze dell’abate

(dal numero di aprile 2024 di Liberetà Toscana)

Dall’abbazia di San Miniato, padre Bernardo parla di pace e dei morti nei cantieri. Il suo è il sogno di una città dove tutte le differenze siano rispettate e dove a moltiplicarsi siano i luoghi di crescita e confronto tra le persone

Una premessa, padre Bernardo. Viene da pensare che da lassù, dal Colle di San Miniato al Monte, le cose e i problemi della città sottostante si possano vedere e capire meglio. «Diciamo che la vocazione di San Miniato è comunque abbracciare con lo sguardo l’intera città, per cui non è difficile percepire una sorta di sensibilità che dall’alto ci spinge ad abbracciare la città, non soltanto con lo sguardo ma anche con il cuore e con un tentativo di comprensione delle diverse criticità. È questo lo spirito, per cui, in qualche misura, ci si apre alle sofferenze della città stessa. Sotto questo profilo gli interventi che possiamo definire di tipo urbanistico nascono un po’ da questo senso fondamentalmente di amore e di attenzione alla città».

Padre Bernardo Gianni è abate di San Miniato a Monte. Il 7 febbraio scorso, ricevendo dal presidente della Regione, Eugenio Giani, il Pegaso d’oro (la massima onorificenza regionale) “come uomo di pace”, si era già espresso sulla particolarità del punto di osservazione dell’abbazia in grado di sprigionare “un’energia spirituale” unica. Il Pegaso d’oro gli è stato riconosciuto dopo l’imponente fiaccolata per la pace organizzata nel novembre scorso con cui ha portato in piazza esponenti delle comunità ebraica e di quella islamica della città.

Lei è intervenuto anche dopo il crollo del cantiere del supermercato di via Mariti nel quale sono morti cinque operai e tre sono stati ricoverati per le gravi ferite riportate.
«Firenze – ha esortato – adesso si fermi, si accorga, rifletta, si indigni, reagisca». Un intervento contro il rischio di assefuazione alla strage quotidiana? «È un rischio tipico della nostra contemporaneità: alla fine, ci anestetizziamo per stanchezza, per protezione, per indifferenza e il rischio è che poi, alla fine, la cosa venga archiviata. Questo non deve accadere, così come non deve accadere di fronte alla guerra o alle tante situazioni in cui vediamo l’umanità scoperta e molto in difficoltà. Il rischio è che dopo una reazione emotiva, alla fine tutto si riduca a una sorta di emozione superficiale. Ecco, quindi, che bisogna acquisire tutti una cultura più raffinata, più intensa, più sofferta della vita. Con la guerra, gli omicidi perpetrati spesso per motivi futili, a sparire è la tutela della vita, del mistero della vita».

Le sue erano parole forti. Ha detto che
«sotto la bandiera del guadagno scorre il sangue». Servirebbe una salto di qualità per prendere pienamente coscienza di questi problemi?
«Penso che sia un salto innanzitutto culturale. Le persone dovrebbero essere incoraggiate a leggere la realtà, qualificandosi come persone che non trovano unicamente soddisfazione in tutto quello che questa società ci invita a fare, spingendoci sulla strada del consumismo e
di una commercializzazione esasperata di ogni aspetto della nostra vita».

Lei è ricorso a un paragone: il crollo del cantiere, ha detto, «è il nostro Ground Zero» e si è detto favorevole a trasformare questo complesso edilizio in un parco piuttosto che in un supermercato.
«È essenziale che quello che verrà dopo non sia un modo come un altro per digerire la tragedia e passare oltre. Bisogna rendersi conto che è stato commesso un crimine contro la vita di queste persone morte sul lavoro perché, come si sta comprendendo, non erano rispettate le normative di sicurezza. La situazione impone una capacità, anche creativa, di fare i conti con quello che è accaduto. Non possiamo ridurre tutto alla fatalità, ritenere alla fine inevitabile che queste cose accadano. Certo, mi auguro una sensibilità diversa e comune del pubblico e del privato per tenere aperto oltre che il ricordo di quanto successo anche la possibilità di un modello di sviluppo della città diverso, che vada oltre la proliferazione all’infinito di luoghi di commercio e di svago. Posti dove le persone crescano non solo come consumatori ma anche come cittadini».

Padre Bernardo, non è la prima volta
che interviene sui grandi temi, riuscendo a scuotere la coscienza delle persone. In che modo si sente protagonista?
«Non credo sarebbe molto positivo se mi sentissi o, peggio ancora, se fossi un “protagonista”. Per il luogo dove abito e per la sensibilità che mi suscita il Vangelo penso piuttosto e spero di essere una persona in grado di aiutare la città a riflettere, a riscoprire la centralità di alcuni valori, di alcuni aspetti che sarebbe un peccato venissero archiviati o trascurati. Ma mai da protagonista. La mia intenzione profonda è di sollecitare la città a riscoprire una visione d’insieme della realtà, dove ci sia spazio per le cose di tutti i giorni, come fare la spesa, ma anche per le cose importanti, per gli altri valori che possono indirizzare la città verso un futuro di responsabilità, di partecipazione, di condivisione».

Si sta pensando a una carta di Firenze per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Cosa si sente di suggerire
proprio per poter avere una visione d’insieme della città?
«Da credente, mi sento di dire che il Vangelo ci insegna a rispettare la persona umana e, soprattutto, i più deboli. Tutti coloro che sono feriti dalla vita e attendono, nel nome del Signore, un supplemento di cura, di carità e di speranza».

Da laico, cosa si sente di dire?
«Il riferimento rimane la Costituzione che fornisce indicazioni chiare su quello che dovrebbe essere l’orizzonte entro cui la nostra coscienza deve spendersi per evitare lo sfruttamento delle persone, evitare che il lavoro diventi, come è successo nel cantiere fiorentino, una trappola mortale per inadempienze e approssimazioni. La Carta ci insegna a essere cittadini e non solo semplici consumatori. Una formula forse un po’ retorica ma indicativa di un processo di qualificazione che ci apra alla possibilità di una programmazione che mette al centro la cultura, lo sport e tutto quello che in qualche misura ci piacerebbe
fosse un po’ di più l’investimento che si può fare. Per non ridurre l’uomo a ciò che è in base a ciò che ha ma dia valore alle persone per quello che sono, a prescindere da ciò che hanno».

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