(dal numero di marzo 2025 di Liberetà Toscana)
Pescatori, costruttori di barchini, cacciatori, raccoglitori di tifa, estrattori di sabbia. Il mondo che popolava Massaciuccoli è sopravvissuto fino agli anni Settanta, quando la modernità ha finito per sommergerlo
A Montigiano, piccola frazione collinare nel comune di Massarosa, terrazza naturale dalla quale si coglie una visione d’insieme dell’intero comprensorio del lago di Massaciuccoli. Vestigia di quella estensione di paludi che, quasi senza soluzione di continuità, percorreva l’intera costa toscana dal Lazio fino alla foce del Magra. Giù nel piano, dopo le ultime case di Bozzano, incontriamo Costantino Viviani, che da sempre vive sul padule (la palude in toscano, n.d.r.). Ci viene incontro lungo la via alberata che porta verso l’ottocentesca villa Ginori, un tempo residenza degli omonimi marchesi, fatta costruire in riva al lago su
un precedente edificio adibito a casino di caccia. Il sole sta tramontando, tingendo
di rosso i canali, le canne, i tetti in lamiera di fatiscenti costruzioni affogate nell’acqua, un tempo adibite a rimessaggio delle barche. È in questa atmosfera di decadenza che chiediamo a Costantino di raccontarci la vita sul lago quando ancora di padule si viveva.
«Considerando la mia età – sono nato nel 1957 – ho avuto la possibilità, voglio dire anche la fortuna, di conoscere un mondo ormai scomparso per sempre. Un modo di vivere che è sopravvissuto fino alla fine degli anni Settanta. Era un mondo di pescatori, di calafati costruttori di barchini, di cacciatori, questi più che altro accompagnatori dei signori invitati della riserva del Ginori. Un mondo fatto di coltivatori di tifa, utilizzata per impagliare sedie e fiaschi, raccoglitori di “canneggiola”. Tutte attività che servivano a integrare il magro reddito dato dalla coltivazione dei campi».
È in momenti come questo, con questa atmosfera che ritornano alla mente i ricordi. Non è così?
«Ricordi fatti di vicende, a volte, ma più spesso di persone. Anzi, di personaggi. Perché tutti quelli che ricordo in un modo o nell’altro erano dei personaggi mitici nei miei ricordi di bambino. Ancora mi sembra di vederli, con i loro stivali a coscia rovesciati sotto il ginocchio. Mi sembra di risentire le risate, le burle, ma anche la rabbia di fronte alla fatica, al freddo di questo ambiente duro, e le bestemmie, colorite, originali, quasi delle poesie. Di quasi nessuno ricordo il nome, ma di tutti ricordo il soprannome: Volpino, Calzone, Poncino, Pomello e Fernette, che più e meglio del nome li caratterizzava».
Quale era l’attività più diffusa?
«Era certamente la pesca: muggini, anguille, carpe, tinche, lucci, persici, fino a tutti gli anni Settanta abbondavano nel lago e nel padule. Fino ad allora, c’era chi di questa attività viveva. Era frequente vedere nasse e tramagli esposti ad asciugare lungo le rive dei fossi e sugli argini o, appese di fronte alle baracche, delle bilance. Tutti avevano un barchino, a fondo piatto, slanciato, nero e incatramato, più o meno grande, a seconda dell’uso e del bisogno, ma tutti avevano la necessità di farselo costruire o riparare. Allora si andava dai calafati. Falegnami specializzati nella costruzione di queste imbarcazioni che, in laboratori improvvisati sulla riva del padule, tra il sentore di catrame scaldato, truciolo di legno e di resina di cipresso, si dedicavano alla costruzione o riparazione di questi indispensabili
“attrezzi” del mestiere».
Oltre alla pesca e alle attività connesse, cos’altro ricordi?
«Fino ai primi anni Sessanta un altro lavoro che si svolgeva sul padule, era la raccolta del falasco. Questa pianta tipica delle zone palustri, caratterizzata da lunghe foglie coriacee e taglienti, veniva segata in estate, essiccata e successivamente raccolta in pagliai sugli argini per essere utilizzata come lettiera per il bestiame al posto della paglia. La pianta cresce nell’acqua e solo nel periodo estivo era possibile segarla con la falce fienaia. Un lavoro massacrante data l’estrema durezza dello stelo e l’estrema instabilità del terreno in cui si operava».
Negli anni Settanta, un’altra attività, divenuta poi una sorta di lavoro industriale, era l’estrazione della sabbia silicea.
«Per l’utilizzo nelle vetrerie, edilizia, taglio del marmo. I giacimenti di sabbia si trovano sotto lo strato di torba che è spesso diversi metri. In origine la torba doveva essere tolta a mano per raggiungere la sabbia e lo si faceva in estate quando l’acqua del padule era più bassa. Successivamente con la meccanizzazione questo lavoro veniva eseguito con draghe e pompe, fino a diventare talmente invasivo da causare danni ambientali gravi all’ecosistema: là dove veniva estratta la sabbia è arrivata l’acqua del mare!».