Gramsci e il jazz

La curiosità per il nuovo fenomeno musicale in due lettere scritte dal grande intellettuale negli anni Venti, quando era ormai agli arresti in carcere

Antonio Gramsci dal carcere, disponendo di poche informazioni dall’esterno, si volse curioso verso il jazz, la nuova musica che veniva dall’America. Da come veniva descritto il jazz in quegli anni, si capisce che fu percepito come una rivoluzione, non solo musicale: «Un improvviso fragore di piatti d’argento rotolati al suolo. È caduta qualche cosa? No, zitti, si suona». La premessa del breve saggio Gramsci e il jazz di Roberto Franchini, edito da Bibliotheka, è tratta da un articolo di Arnaldo Fraccaroli, giornalista, viaggiatore e scrittore.
Anche Gramsci ne parla in termini sorprendenti: «La Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e il jazz-band è la prima molecola di una civiltà eurafricana», scrive. Annota subito Roberto Franchini: «Un giudizio secco e senza appello… Che il jazz sia stato allo stesso tempo un
terremoto, un tornado, un vento liberatorio è descrizione affidata alla cronaca di quei decenni». Mi verrebbe subito da indagare se Gramsci abbia mai potuto ascoltare un brano di jazz. Impossibile. Il primo disco jazz negli Stati Uniti vide la luce nel 1917. La radio italiana nascerà esattamente nel 1924. A Gramsci, assunto nella redazione torinese dell’Avanti!, nel 1915 fu affidato il compito di curare la rubrica “Teatri”, che tenne fino al 1920, nonostante i suoi impegni politici e giornalistici. Tanti articoli poi raccolti in
modo organico in due pubblicazioni nel secondo dopoguerra. In entrambe le edizioni a Gramsci furono attribuite solo le recensioni teatrali con qualche timida eccezione per le operette. I curatori dell’opera omnia degli scritti di Gramsci sono giunti, invece, alla
conclusione che anche molti degli articoli musicali pubblicati sull’Avanti! debbano essere attribuiti a lui.

Di jazz Gramsci parla
solamente due volte. Il primo accenno l’8 agosto 1927, in cella nel carcere di San Vittore, in una lettera al compagno di partito Giuseppe Berti, confinato a Ustica, usando l’espressione “jazz-band”, che non è un errore – spiega Franchini – perché dominò la pubblicistica italiana per parecchi anni. Gramsci associa il jazz all’aumento del numero dei “meticci” in Francia. «È impossibile non notare – osserva Franchini – come il concetto di meticciato, introdotto da Gramsci con significato ambiguo, rivesta oggi una particolare modernità». È un concetto che riprenderà una seconda volta, con un’analisi e una riflessione sul jazz molto più ampie, in una lettera alla cognata Tatiana del 27 febbraio 1928. Gramsci coglie la “capacità prensile” del jazz di fare breccia nei gusti degli europei: «Questa musica – scrive – ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione
europea colta, ha creato un vero fanatismo». Quasi certamente Gramsci scrive del fenomeno jazz spinto dalla lettura dei giornali da cui si era informato, colpito «dalle isterie scatenate in tutta Europa e del movimento frenetico che avevano impresso alle serate mondane».

Come ritrovare il bandolo della matassa? «Come scienziato della politica, della geopolitica – lo definiremmo oggi – guardava le cose da militante comunista non certamente razzista. Guardava a quello che avveniva, era interessato a come gli Stati Uniti, la vera potenza emergente, stesse conquistando l’Europa, in particolare la Francia. Pur in prigione, riusciva a guardare al mondo che andava dagli Stati Uniti, alla Francia, all’Asia.
Oggi con i telefoni, la televisione, il web, è più facile, allora non era così». Le poche frasi di Gramsci sul jazz, conclude Franchini, «sono sicuramente una moneta a doppia faccia: da un lato vi è l’evidente non conoscenza della musica in quanto tale, dall’altra vi è l’attenzione per un fenomeno (culturale prima ancora che musicale) destinata a segnare la vita sociale tra le due guerre». E non solo.

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