«Dico no, no alla morte nelle fabbriche»

«Siamo nelle fabbriche d’Italia…mi arrabbio, dico no, no alla morte nelle fabbriche». Un groppo alla gola. La voce si rompe. Si commuove l’operaio al microfono sul palco, davanti alla gente che lo ascolta in silenzio. Viene anche lui dal Nord Africa, come quei poveri suoi colleghi rimasti sotto le macerie del cantiere Esselunga di via Mariti, a Firenze. Un boato, pochi minuti prima delle 9 del 16 febbraio. Crolla una trave di cemento di quindici tonnellate. Cinque morti, tre feriti di cui uno in modo grave. «Mai più» denunciano i titoli di giornali e tv, urlano giovani e anziani in corteo, ripetono politici, rappresentanti delle istituzioni, sindacalisti. Ma è un grido di dolore antico. Che si replica nel tempo, mentre il lavoro continua a uccidere, spesso in silenzio. Mille morti l’anno in Italia, ventimila negli ultimi vent’anni. Ora che si sono spente le luci, che i cronisti tornano davanti ai computer e la politica pensa di nuovo ad altro, resta solo il silenzio nel cantiere Esselunga che la mattina del 16 febbraio a Firenze ha cancellato la vita di cinque operai. Dalla rete di recinzione spuntano qua e là alcuni garofani bianchi, ormai appassiti, i petali tutti inclinati verso il basso. A poca distanza, nei pressi dell’incrocio tra via Mariti e via del Ponte di Mezzo, di fronte all’ex cinema Manzoni, ci sono ancora quattro mazzi di fiori adagiati sul marciapiede, i lumini ormai spenti, i messaggi sbiaditi della gente, vicino al grande cancello del cantiere. I passanti scorrono rapidi, alcuni si fermano, guardano dentro attraverso la rete scura di recinzione. Si vedono due gru, altissime, protese verso il cielo. Il cantiere è una enorme colata di cemento, tetro. Qua e là si sono già formate grandi pozze d’acqua. Qui dove ogni giorno si muovevano come formiche decine e decine di operai ora si respira soltanto una infinita tristezza. E dal cantiere sotto sequestro riemergono i troppi interrogativi di questa tragedia. I controlli che non bastano, gli ispettori del lavoro che mancano, i sessanta appalti a cascata, i contratti irregolari, il meccanismo marcio degli appalti al massimo ribasso. Ma soprattutto le vite disperate degli ultimi, invisibili, quelli che affogano in mare respinti dalla nostra crudeltà e se ce la fanno divengono fantasmi che scopriamo cadaveri nella tragedia. Il più giovane era Mohamed El Farhane, 24 anni, marocchino. «Era solo un ragazzo, il mio ragazzo» dice suo babbo in lacrime davanti al cantiere. Mohamed Toukabri, tunisino, ne aveva 54. Aveva soltanto 19 anni quando lasciò il suo paese per venire in Italia. Era il 1990. Da allora era tornato a casa solo una volta, il Natale scorso, per riabbracciare i suoi genitori, ai quali aveva mandato da poco 500 euro. Viveva in provincia di Bergamo. Suo fratello Sarhan piange al rito funebre islamico alle Cappelle del commiato di Firenze. Chiama i genitori, si collegano in videochiamata e dal Marocco abbracciano sullo schermo del telefonino il loro figlio perduto. Poi Sarhan ricorda le chiacchierate felici con Mohamed, che si lamentava a volte perché guadagnava poco. «Ora lo riportiamo a casa» dice. A Medjez el-Bab, vicino a Tunisi, dove era nato e cresciuto. Taoufik Haidar, 43 anni, aveva lasciato 15 anni fa il Marocco dove sono rimasti suo padre e i due figli di 9 e 12 anni con sua moglie. Le aveva detto che sarebbe tornato per il Ramadan e per questo aveva preso ferie. Come gli altri colleghi anche lui dopo una parentesi in Umbria aveva trovato casa nel Nord Italia, in provincia di Bergamo e anche lui si spostava da un cantiere all’altro in giro per l’Italia. Li chiamano trasfertisti: lontani migliaia di chilometri dai loro affetti, una moglie, i figli ancora piccoli. Mandano i soldi a casa per alimentare forse anche la speranza, un giorno, di un riscatto. Lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie e, qui in Italia, nomadi dell’edilizia, lontani centinaia di chilometri dai cantieri che ogni volta devono raggiungere. L’unico italiano è Luigi Coclite, 59 anni, di origini abruzzesi che da circa trent’anni viveva nel Livornese con la moglie Simona e i figli Lucrezia e Alessio, di 23 e 18 anni. «Gli ho tenuto le mani e sono rimasto accanto a lui mentre cercavano di rianimarlo ma era già morto. Per me era come un padre» dice in lacrime un muratore albanese che lavorava con Luigi da quindici anni. A Vicarello, il suo paese, al funerale, il parroco dall’altare parla di omicidi sul lavoro. Coclite è stato la prima vittima identificata. L’ultima è Rahimi Bouzekri, 56 anni, anche lui marocchino. Viveva nel Bresciano. Il cantiere maledetto ne restituisce le spoglie solo dopo estenuanti ricerche, giorno e notte. Il suo corpo martoriato resta lì, al freddo, per cinque giorni, sommerso dal fango e dal cemento. «Sanno che non hai alternative, approfittano della tua debolezza» racconta un operaio edile. Ha cinquant’anni, è in Italia da venticinque. Viene anche lui dal Marocco e gira da un cantiere all’altro. Già, i trasfertisti.

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