Vent’anni fa la scomparsa del grande giornalista. Nato e cresciuto a Firenze, dopo anni da inviato in Vietnam e in altri conflitti che sconvolsero l’Asia, passò i suoi ultimi anni a Orsigna, in provincia di Pistoia
Sono passati vent’anni da quando Tiziano Terzani è morto. Fiorentino del quartiere di Monticelli a San Frediano, ma frequentatore del globo, ha «lasciato il suo corpo», come diceva lui, il 28 luglio del 2004 a Orsigna, un piccolo paese arrampicato sull’Appennino pistoiese, nella casa conservata con affetto dalla moglie Angela Staude, la figlia Saskia, il figlio Folco. Lì Terzani aveva vissuto gli ultimi anni della vita, assediato dal cancro. Dopo il lungo viaggio nel mondo, prima, e poi la lotta per assicurarsi cure efficienti
da New York all’Himalaya, aveva concluso che il rimedio lo si trova solo viaggiando dentro se stessi. «Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi dispiace che non potrò scriverne», così disse in Anam il senza nome. L’ultima intervista a Tiziano Terzani.
Nato il 14 settembre 1938, la sua vita è stata un continuo viaggio intorno al mondo: le donne e gli uomini, i grandi personaggi e gli accadimenti, le guerre, le illusioni e le disillusioni, le religioni, i paesaggi, gli incontri con la storia, o meglio con le piccole storie
che fanno la grande storia. Senza aderire ad altro che non fosse la propria intelligenza delle cose. Poi, quando non ha più potuto farlo, il rifugio toscano. Un ritorno alle radici? Piuttosto la dimostrazione che le radici non esistono ma che ognuno se le crea di volta in volta e in ogni luogo. Anche la vita si è dipanata in ogni luogo, con l’unico principio saldo di non valutare mai niente dai racconti terzi ma andando a indagare di persona. Si trincerava dietro un «sono fiorentino» quando gli chiedevano se era ateo, credente, comunista, cristiano o di altre religioni. «Il babbo si definiva soprattutto con questo aggettivo – racconta Folco, in un’intervista –. Il più idoneo per raccontare il suo scetticismo. Non seguiva nessuna spiritualità prescritta; non si inchinava davanti a nessuno, neppure al Dalai Lama o a madre Teresa di Calcutta. Al centro la sua intelligenza, con cui cercava di capire». Povero, ricco ragazzo di quartiere, uomo di mondo. Soprattutto giornalista e scrittore. Ma anche fotografo che insegue lo scatto rivelatore. Come si percepisce dalla mostra fotografica visitabile fino al 16 ottobre alla BiblioteCa Nova dell’Isolotto. Si intitola Memorie di viaggio: Fosco Martini-Tiziano Terzani, ovvero le foto a confronto di due fiorentini diversi, ma ambedue innamorati dell’Oriente. Terzani racconta che il demone della fotografia lo sorprese in Vietnam quando seguiva, come giornalista, la guerra. Spiega che, durante il tragitto di ritorno dalle battaglie, osservava i fotoreporter che spedivano i loro scatti alle proprie testate: il loro lavoro era chiuso lì mentre lui, cronista della carta,
aveva ancora davanti il tormento di sedersi di fronte alla sua Lettera 22 e scovare le parole giuste. Li invidiava, dice. E chi di noi che scrive non ha mai provato quella sensazione?
Di famiglia operaia, Tiziano aveva conservato la nobiltà delle origini povere che gli faceva amare i diseredati piuttosto che i ricchi della terra, i prepotenti, i guerrafondai, i calpestatori degli altri ma anche della terra e della natura. Il padre, meccanico, era stato partigiano comunista, la madre faceva cappelli. Lui aveva voluto studiare nonostante le difficoltà economiche. I suoi genitori avevano portato i loro averi al Monte dei pegni per comprargli i pantaloni lunghi per andare a scuola dopo che il maestro aveva detto che era bravo. Ancora giovanissimo aveva mostrato la sua autonomia di pensiero quando, durante la rivoluzione ungherese del 1956, si iscrisse al Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli, senza allinearsi né con la Dc né con il Pci. Arrivò, pur senza quattrini ma con grandi volontà, a laurearsi alla Normale di Pisa. Ma il vero salto fu quando arrivò all’Olivetti da dove lo mandarono a girare il mondo per lavoro. Dopodiché non fece più che il giornalista e lo scrittore.
Lavorava per la testata tedesca Der Spiegel, ma scriveva anche per L’Espresso, la Repubblica, il Corriere. Ci lascia molti libri. Tra i più noti: Un indovino
mi disse, L’ultimo giro di giostra, La fine è il mio inizio, In Asia. Cronista di un viaggio nel mondo che rimandasse il senso profondo delle cose, soggiornava a lungo nei luoghi (guai ai turisti!) e ne assumeva gli stili di vita. «Io non sono molto intelligente, colto o brillante.
Però sono sempre interessato all’altro: chi sono gli altri?», diceva, sospeso tra l’Occidente, da cui fuggiva, e l’Oriente di cui si innamorò ma che lo deluse anche: «Nessuna cultura asiatica è in grado di resistere all’asfalto del materialismo occidentale». Convinto che il
mondo andasse cambiato, ma senza abbracciare nessuna ideologia né religione,
se non quelle della testa e degli occhi che esplorano, lasciò la porta aperta per chi cerca un’alternativa inesplorata. Si innamorò della rivoluzione culturale di Mao, giudicando che togliesse ai ricchi per dare ai poveri, ma ne fu deluso. Si innamorò, al polo opposto, della non violenza di Ghandi e la fece sua per sempre. Una non violenza verso tutte le creature. Dopo l’11 settembre, scrive Lettere contro la guerra anche in risposta a Oriana Fallaci: «Dovremmo prendere coscienza che la pace è la sola opzione, che mai la guerra è soluzione ma fonte di altra guerra». Visse in Oriente molti degli eventi storici fondamentali del tempo. Nel 1975 fu tra i pochi giornalisti ad assistere alla caduta di Saigon: «Gli americani scappavano con quegli elicotteri con i fari, la gente ci si attaccava e veniva ributtata di sotto. All’ambasciata americana c’era il caos. Quella notte sentivi la Storia», scrive in La fine è il mio inizio. «E quando vidi i primi carri armati entrare nella città, e la prima camionetta carica di ribelli, di vietcong, venire giù per rue Catinat con loro che urlavano Giai Phong! Liberazione! per me era la Storia. Piansi. Non soltanto all’ idea che la guerra era finita, ma perché sentivo la Storia».