Il vecchio mulino

(dal numero di novembre 2024 di LiberEtà Toscana)

A Stia, nel Casentino, Claudio Bucchi difende l’antica macina di famiglia. Il suo sogno è trasmettere ai ragazzi di oggi la ricchezza culturale del mondo contadino. Nella stessa struttura, Andrea Gambassini e Alessandro Volpone praticano un’itticoltura ecosostenibile, preservando le specie autoctone che popolano il fiume Arno. Ecco il racconto dei nostri inviati

Quando arrivi al Molin di Bucchio, a pochi chilometri da Stia, nel Casentino, comprendi immediatamente che ti trovi in un luogo magico. In questo angolo della provincia di Arezzo, il tempo e lo spazio sembrano sospesi. Per molti secoli, le acque dell’Arno hanno dato movimento alle pesanti macine in pietra del mulino. In passato le acque del fiume che scendono veloci dal Falterona, si trasformavano in energia, animando quella che era una struttura produttiva di vitale importanza. Si tratta del primo mulino che si incontra lungo il fiume, il cui corso, poi, attraverserà larga parte della Toscana. Oggi, Molin di Bucchio, la cui nascita sembrerebbe databile al 1200, non è più funzionante da qualche decina di anni, ma il fascino di questo ambiente rimane inalterato grazie al lavoro instancabile di Claudio Bucchi, il proprietario della struttura. A prima vista percepisci che ha una corazza dura ma in realtà il suo animo è fatto della stessa stoffa dei sogni che coltiva. Basta parlarci per qualche minuto per comprendere che siamo in presenza di un animo nobile. Una specie di “druido” dei boschi casentinesi. «Quando ho ereditato dal cugino del babbo, Pietro Bucchi, detto “Pietrone”, la struttura era messa molto male, trovandosi in uno stato di semiabbandono – racconta Claudio –. Ma non mi sono perso d’animo e siccome ho fatto il muratore per tutta la vita mi sono dedicato, con tempo e con molta pazienza, ai lavori
di ristrutturazione e di mantenimento del mulino. Tutto ciò è stato possibile grazie alla famiglia eb e a mia moglie Carla», afferma Claudio con orgoglio.

«Nel corso degli anni
, ho ricevuto molte richieste di acquisto di tutto l’impianto da parte di imprenditori italiani ed extraeuropei – insiste – ma ho sempre rifiutato perché penso che il Molin di Bucchio possa essere lo strumento che mi permette di realizzare il mio sogno: trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza culturale della civiltà contadina. Per me è una missione, una terapia, un progetto che mi riempie la vita e non a caso Molin di Bucchio è entrato a far parte della rete degli Ecomusei del Casentino», spiega Claudio. Le sorprese però non finiscono qui: all’interno della struttura è ospitata un’attività di allevamento ittico, che può contare su otto vasche per la riproduzione di trote, abbandonate per anni, ma che Claudio ha deciso di affidare a due giovani imprenditori.

Il progetto ha avuto inizio
nel 2008, quando con risorse limitate, ma tanta passione e determinazione, Andrea Gambassini e Alessandro Volpone, i nuovi gestori, hanno ripulito le vasche invase dalla vegetazione e ripristinato il flusso dell’acqua proveniente dall’Arno.
«L’obiettivo iniziale era semplice ma ambizioso: salvaguardare e ripopolare le specie di pesci di acqua dolce autoctone, a rischio di estinzione», spiega Volpone. Tale attività è resa possibile grazie alla collaborazione con il Parco delle foreste casentinesi. «Sarebbe auspicabile, però – affermano i due imprenditori – che anche la Regione e gli organi preposti sostenessero progetti a scala di bacino, a partire da un fiume così importante come l’Arno». L’Antica acquacoltura Molin di Bucchio si distingue per la qualità delle sue trote iridee, le fario, e anche dei salmerini allevati in modo estensivo in un ambiente naturale e incontaminato a pochi distanza dalla sorgente. «Le vasche – prosegue Gambassini – utilizzano un sistema di circolazione continua dell’acqua sfruttando la gravità
senza pompe di ricircolo che garantisce un habitat ideale per i pesci». Tutta la linea produttiva non vede mai l’utilizzo di farmaci e punta costantemente al benessere animale. «L’alimentazione è tutta a base di mangimi biologici privi di trattamenti farmaceutici. Abbiamo creato – dichiarano con orgoglio – un “serbatoio” ecosostenibile della biodiversità
acquatica, che si distingue per un’attività imprenditoriale legata a due temi importantissimi: da un lato, le strategie di conservazione della biodiversità, ripopolando e reintroducendo i primi esemplari di barbo tiberino, ghiozzo di ruscello e cavedano etrusco,
tutte specie che alleviamo qui nel Molin di Bucchio e che poi, dopo un lungo periodo di crescita, immettiamo nell’Arno. Dall’altro, vogliamo promuovere una produzione alimentare di alta qualità, come abbiamo descritto all’inizio». Ogni componente del processo produttivo è realizzata nel rispetto dell’ambiente e del benessere animale, princìpi che hanno permesso all’Antica acquacoltura di ottenere riconoscimenti e premi a livello europeo. Nel 2019, l’azienda è stata selezionata dall’Unione europea come una delle sei migliori pratiche europee. Nel 2020 è stata indicata come uno dei dieci migliori progetti nazionali per la conservazione della biodiversità dal ministero dell’Ambiente, che un anno dopo li ha riconosciuti, anche come una delle migliori aziende italiane di acquacoltura.

Il successo di questi giovani imprenditori non è passato inosservato. Oggi l’azienda rifornisce semplici famiglie attente alla qualità del cibo, gruppi d’acquisto solidale (Gas) e perfino i ristoranti di chef stellati. Andrea e Alessandro ci chiedono di annotare alcuni suggerimenti per la politica. «Al di là degli spot elettorali, gli imprenditori come noi si rendono conto che sono tante le dichiarazioni della politica nazionale e locale sulla tutela
e la salvaguardia dell’ambiente e della montagna casentinese e non solo. Poi nei fatti gli interventi concreti sono pressoché inesistenti, e si mettono sullo stesso piano fiscale e normativo le piccole realtà come la nostra e le grandi aziende che hanno enormi margini di profitto». «Vorremmo anche – aggiungono – che si sviluppasse, sempre di più, una cultura consapevole dell’utilizzo dell’acqua e del suo impiego razionale. Si può fare anche con semplici azioni, ad esempio favorendo l’utilizzo delle acque piovane per l’irrigazione degli orti». Sul problema dello sfruttamento e della captazione dell’acqua dei fiumi, ricordiamo
anche la forte denuncia avanzata questa estate del comune di Montelupo Fiorentino sugli eccessivi prelievi idrici dal fiume Pesa: 5,5 milioni di metri cubi d’acqua, pari al 90 per cento del totale dell’intero bacino idrico che dai monti del Chianti senese arriva, sessanta chilometri dopo, all’Ambrogiana di Montelupo per confluire infine nell’Arno.

(dal numero di novembre 2024 di LiberEtà Toscana)

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