PIANETA TERRA 5. Non ci sono più le stagioni di una volta. Il brutto e il bello nel prossimo futuro

La quinta puntata di Pianeta Terra invita ad interrogarsi sul nostro futuro. I primi due contributi a cura di Sergio Cofferati e Marco Tognetti. 

Sergio Cofferati

La prima necessità è quella di non darsi l’obiettivo di lavorare perché tutto ritorni come prima. Certo i danni della pandemia sono enormi, dureranno nel tempo e distruggeranno una parte rilevante delle condizioni di vita esistenti. Ma il morbo ha esercitato la sua forza distruttiva anche in virtù delle distorte e deboli protezioni di cui godeva gran parte delle popolazioni. Di quelle debolezze ci siamo spesso lamentati e più volte abbiamo cercato, con scarsi risultati, di cancellarle. La normalità che dobbiamo cercare non è dunque il ritorno al recente passato ma la costruzione di un vicino futuro nel quale le diseguaglianze sociali, le fragilità economiche e le debolezze culturali siano superate e i valori siano determinati dalla solidarietà e dal rispetto dei diritti individuali e collettivi. La pandemia ha accentuato le diseguaglianze economiche, ha reso più pesanti le differenti età, ha accentuato le conseguenze delle asimmetriche protezioni sociali di cui godono (o non godono) i cittadini. Lo si vede in molti settori della società attuale. Dal lavoro, alla cultura, all’apprendimento, dalla difesa del reddito e ovviamente in modo ancor più clamoroso stante l’origine della crisi dalla protezione della salute. Stanno pesando molti cambiamenti dello stato sociale e le mancate riforme nella stessa materia. La sanità che ha mutato clamorosamente il rapporto tra pubblico e privato a danno del primo, che ha ridotto la presenza e la qualità delle prestazioni vicino alla “domanda”, che anche per queste ragioni non è in grado di assistere adeguatamente i più deboli (anziani in primis) è senza dubbio il principale problema che lo Stato deve affrontare. Certo in pari tempo con l’economia nei suoi vari segmenti, ma non dopo. Saranno tra poco disponibili, a precise condizioni è bene non scordarlo, le risorse messe a disposizione dall’Unione Europea per affrontare questa terribile fase. Il governo ha il dovere di affacciare proposte meditate ma ha anche la necessità di misurarle con chi rappresenta i cittadini: il Parlamento ma allo stesso tempo le rappresentanze sociali. Il confronto deve essere preventivo e leale, troppo grande è il problema da risolvere per non considerarlo, senza enfasi, come vitale per il nostro futuro. 

Marco Tognetti

Con tutta l’attenzione data allo smartworking, agli acquisti online, ai servizi a distanza, potremmo aspettarci che il Covid-19 abbia dato un’importante spinta anche alla sanità digitale (e-health). In realtà così non è stato. La gestione dell’emergenza ha visto il genio italiano spendersi per trovare soluzioni immediate e, in molti casi, anche efficaci, anche se purtroppo non molto lungimiranti. Abbiamo velocemente messo in piedi sistemi di risposta veloce, come si fa durante terremoti e catastrofi, basati sul vecchio “numero verde”, sui call center e sulle due ruote (portare il risultato del tampone velocemente e fisicamente dal punto A al punto B). Paradossalmente, il sistema di e-health italiano (Fascicolo Sanitario Elettronico, Cartella Clinica Elettronica, CupWeb, Dossier Sanitario, ecc.) ha mostrato tutta la sua debolezza, ed invece di potenziarlo l’abbiamo per il momento semplicemente messo da parte. Tra i vari motivi per cui questo è avvenuto ne sottolineo due, forse utili per pensare a come invece impiegare in modo efficace in questa direzione le risorse del Recovery Fund:

  1. Il sistema “pre-covid” era organizzato principalmente regione-regione, e non invece regione-centro. Certo, una buona rete funziona se i suoi diversi nodi sono connessi, in questo senso un centro non dovrebbe essere necessario. Ma se vogliamo un sistema di supporto universale non possiamo lasciare unicamente alle Regioni la responsabilità di costruirla questa rete, quanto invece la responsabilità di abitarla, di riempirla di contenuti e di arricchirla;
  2. L’e-health, come tutto ciò che è digitale, non va visto (né costruito) come un oggetto statico, un “prodotto” con un suo confine definito al momento della consegna. È, e dev’essere, invece un’infrastruttura abilitante, il cui scopo è sì fare ciò per cui è stata pensata (scambiarsi dati sanitari, permettere il supporto a distanza, ecc.) ma anche permettere gli innumerevoli usi aggiuntivi che qualsiasi operatore, pubblico o privato, può immaginare dal momento in cui essa esiste.

Nell’ormai lontano 2016 ho partecipato al progetto europeo SI-DRIVE, che si proponeva di mappare innovazioni sociali in diversi ambiti tra cui la salute in Europa. Già allora, insieme ai partner europei, identificammo nell’e-health uno degli ambiti più promettenti dove si incontravano bisogni sociali vecchi e nuovi con le nuove tecnologie, favorendo l’emersione di nuovi modelli di assistenza. Questa potenzialità oggi è anche maggiore se consideriamo quanto abbiamo appreso in termini di Intelligenza Artificiale e Big Data. Il punto fondamentale dunque non è chiedere al Governo di realizzare tutto, ma di concentrarsi sull’infrastruttura e renderla aperta e interoperabile. In questo senso per avere una buona rete vogliamo che il centro sia pienamente alla guida di questo processo.

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